Salvatore Sebaste: territorialità di una cultura universale
Furono le parole del Delfinio a guidare i primi coloni greci in questa terra di facili approdi, tra due foci di fiumi. Giunti a prenderne possesso, non si trovarono di fronte il silenzio ospitale delle terre vergini in cui l'unico suono è il verso incessante dei rospi e delle cicale, ma popoli antichi che dissero di avere conosciuto e sconfitto Minosse, e divinità selvagge che avevano signoria sulle fonti sotterranee, sulle maree, sull'anima e la carne. La vitalità violenta della Oinotria, il Giardino del Tramonto vegliato da serpenti e mostri ha avuto bisogno di uno sforzo di comprensione da parte di quegli antichissimi colonizzatori. Una “fatica” culturale che adesso si chiede di compiere nuovamente a chi si accosta alla produzione di Salvatore Sebaste, perchè la sua immediatezza nasconde simboli ed emblemi che si sommano fra loro, come frammenti di edifici preesistenti sulle cui fondamenta costruire un concetto più variegato e insieme più autentico di arte.
Meftis era, per le genti pregreche, la Grande Madre Montagna, coi capelli verdi e il volto bianco come la roccia, dai cui fianchi nascevano i cavalli. Nel suo ventre perennemente affamato e sempre gravido precipitavano le primizie: i frutti più perfetti dell'anno, gli agnelli, a volte i figli dei re.
Saturno era il seminatore celeste, il feroce re destinato a vegliare solo nelle notti più lunghe dell'inverno, mentre tutti dormivano, e a sognare il buio per il resto dell'anno: quando i ceppi che lo stringevano venivano allentati, poteva rendere di nuovo fertili gli alberi e i pascoli nel riposo del gelo.
Sono, questi, Dei-archetipi fondamentali, più antichi dei Greci, più antichi delle stesse popolazioni italiche: la pittura di Sebaste li ha conosciuti, attraverso i capitoli della storia della propria terra, e li ha fatti suoi in un processo che ha portato l'artista a celebrare la dualità come una ricchezza, non come una dicotomia che va estirpata, in una interiorizzazione di un concetto che è vicino a quello magico del percorso pagano.
Successivamente all'approdo, giunse la necessità, per i nuovi padroni di queste fertili terre, di difendere la conquista da coloro che la contendevano loro: la Storia racconta di guerre, di massacri, perfino di sacrilegi. La prima caduta di Siri-Polieion condusse allo sterminio dei coloni ioni: raccontano gli storici che la statua di Pallade volse ancora una volta gli occhi alla dimora del padre Zeus, come dentro la rocca di Ilio devastata quando Aiace segnò la sua morte in mare, perché il destino è sempre uguale per gli uomini: pirati, mercanti, bestemmiatori e violentatori di donne.
Tuttavia, pur rimanendo di questi scontri l'eco crudele nelle tele dell'artista si assiste alla celebrazione della ciclicità del tempo, dell'ineluttabilità del destino, non con la rassegnazione di chi lo subisce, ma con la serenità di chi percepisce anche nella vita che affronta un evento doloroso un colore e una forma che mutano.
D'altra parte, con il volgere delle generazioni, per i coloni, i legami con le convenzioni e le leggi della terra natale si allentarono, anche se forse non giunsero a spezzarsi, e non restò loro che arrendersi, diventare appunto qualcosa d'altro. Quasi con leggerezza strinsero quell'alleanza, sposarono le donne dei Choni, degli Enotri dai monili di oro pesante, perchè il destino è sempre uguale per gli uomini: amanti, traditori, traditi e padri. L'arte di Sebaste è legata al territorio dal momento che è il luogo che plasma chi vive al suo interno mentre questi si illude di modificarlo a suo piacimento e a sua immagine; vive nella memoria, ma non solo per essa. Come il funzionale degli antichi doveva rispondere anche ai canoni del bello (la kalokagathìa), il personale concetto della bellezza per l'artista è sì funzionale ad un principio, ma questo principio è classico, nel senso di sempre valido.
È un antico mistero quello per cui la forza di due pensieri, di due culti uniti aumenta fino a divenire assai più grande della loro somma. Così, nel nuovo pantheon magnogreco la Madre Montagna si affiancò all'Hera sotterranea e guerriera che venne dall'Argolide; Apollo divenne il Lupo del Giorno, protettore degli armenti; il Signore dei Pozzi abbracciò come fratello Posdan, il padre dei mostri marini. E trovarono spazio, nella resa, nella carne delle generazioni che vennero, giorno dopo giorno si fecero più presenti. Le nuove generazioni nate dalle alleanze tra gli -oramai- ex invasori e i primi abitanti pregarono quegli Dei nati dall'abbraccio di due nazioni, portarono le loro effigi sotto le vesti. E la Grande Grecia divenne più ricca e potente della patria lontana, grazie a Loro.
L'esperienza profonda di questa comunione con Numi arcaici eppure nuovi, stranieri eppure legati alla Lucania è ciò che questo percorso artistico ci offre: i coloni siamo noi; noi che eravamo reietti, quasi scacciati col divieto di tornare, fummo onorati come grandi guerrieri, diventammo principi di antica nobiltà, gli iniziati del tirso e del sistro. Noi fummo i prediletti del Trace Dioniso, celebrato con l'orgia per la sua morte e rinascita, cantato ad ogni coppa di vino. Egli c'insegnò l'intruglio d'amore che si fa con la vite, il miele ed il mirto, e con il suo aiuto fummo i primi ad ammaliare Roma, figlia dei Lucumoni. I saggi delle nostre poleis furono seguaci dell'uomo di Samo dalla coscia d'oro, che conosceva il linguaggio degli animali, dei genii fluviali e la magia dei numeri e dell'armonia celeste; di Theano sua sposa, da cui le maghe dei secoli bui trassero la conoscenza delle erbe e le litanie che tolgono il malocchio.
Quel che avvenne dopo- la paura della sapienza delle donne, delle Dee dagli occhi di rapace notturno che illuminavano le notti in cui il cielo era vuoto di stelle- non significò la morte della magia divina. È vero, ci fu chi chiamò demoni, o streghe, i sacerdoti guaritori e le profetesse, inventando storie calunniose di patti con mostri infernali e veleni distillati dal sangue uterino: ma l'integrazione era stata troppo profonda, e chi non conosce il vero nome di questa energia, non ha la forza di scacciarla.
Ancora oggi il potere di tutti gli Dei si mostra, nella calura meridiana, negli spiriti dei bambini coi berretti rossi, nelle danze delle donne attorno ai noci. La pittura di Salvatore Sebaste è arte raffinata che non ha perso tuttavia il senso dell'immaginario antico e folklorico. Essa ci rende nuovamente intellegibili i gesti, le materie, che sono gli stessi da milenni: le bambole di terracotta tormentate di spilli piangono in eterno per ottenere l'amore o la morte; i Signori dell'Averno, che nulla possono dimenticare, leggono ancora le maledizioni attorte nel piombo malevolo, indistruttibili, poste dentro tombe a camera che ancora tornano alla luce.
L'anima primordiale dei primi abitatori non andrà mai via dalla Grande Grecia, per quante messe si celebrino, per quanti nuovi eroi e culti si possano imporre.
Perchè anche noi siamo i coloni ed è il nostro sangue che ha nutrito gli altari di questa terra per l'ultima volta, quando ancora esisteva il destino. E la magia attenderà nelle onde, nelle rocce e dentro la luna il momento del ritorno.