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Uno degli episodi riportati da Salvatore Sebaste nel suo diario di vita e di lavoro[1] riguarda l’abitudine che egli aveva da bambino, durante le sere trascorse accanto al focolare ascoltando racconti popolari abitati da diavoli, streghe e altre creature magiche, di violare il candore delle pareti domestiche imbiancate a calce tracciandovi dei segni con dei bastoncini di legno combusti sottratti al camino, mentre immaginava di vedere dei diavoletti rossi sbucare dal pentolone sospeso sul fuoco. Quei segni scarabocchiati sullo schermo immacolato dei muri della sua casa di Novoli, vicino Lecce, si sarebbero poi tramutati, nella prima età scolare, in goffi, piccoli demoni che tentava di disegnare sulla carta e che, oltre ad essere il frutto della sua fantasia di bambino stimolata dalle fiabe e dal folklore della sua terra, probabilmente avevano anche una qualche parentela con le bizzarre creature fantastiche di gusto quasi neo-medioevale intagliate nella pietra che gremiscono, ad orrore del vuoto, le architetture di quel Barocco leccese che l’artista aveva avuto davanti agli occhi da sempre.

   L’episodio può essere abbastanza ovviamente considerato rivelatore di una precoce propensione per l’arte. È però interessante che tale propensione si manifestasse già allora secondo la modalità primordiale del tracciare segni iconici su un supporto scabro e materico, qual è quello delle pareti di una casa contadina (che possono anche rinviare per suggestione analogica a quelle delle grotte rupestri graffite e dipinte dall’uomo preistorico). Ed è lo stesso Sebaste a ritornare ripetutamente, ancora nella sua preziosa raccolta di appunti personali utilissima per lo storico e per il critico, sull’interesse per lui rivestito dal disegno infantile che, sulla scia di Dubuffet ma anche di Kandinskij e di Klee, considera una manifestazione di creatività quasi magica, tanto più espressiva e profonda in quanto primigenia e perciò libera e autentica.

   È stato dunque il segno grafico il primo mezzo in cui l’artista si è riconosciuto e tale impronta originaria, persistendo nel tempo, avrebbe dato nuovi frutti verso la metà degli anni Cinquanta, quando Sebaste, ancora studente presso il Magistero di Belle Arti di Firenze, avrebbe scoperto, grazie alle esortazioni di Alessandro Parronchi, suo docente di Storia dell’arte, le tecniche grafiche dell’incisione, in cui avrebbe presto raggiunto risultati eccellenti[2]. Ma come ha più volte sottolineato la critica, anche un’altra impronta delle origini, quella della cultura artistica e popolare leccese e salentina, lo avrebbe seguito costantemente nel tempo manifestandosi in modo evidente, dagli anni Settanta, in un recupero della tecnica artigianale della cartapesta e in un suo inedito riuso come medium artistico.

   Pure quel piccolo demone tracciato a stento dalla mano dell’artista bambino e che forse, senza che lui lo sapesse, era già simbolo di qualcosa di più grande, era destinato a permanere a lungo in lui, ritornando a più riprese in vari suoi dipinti e incisioni di carattere figurativo. Ma crescendo e modificandosi ulteriormente al punto da liberarsi della sua forma iconica, esso giunse infine a mostrare la sua essenza profonda, rivelandosi come una sorta di dàimon socratico, un potente impulso interiore che in Sebaste si traduce ancora oggi in un fervido istinto creatore di forme generate da una perpetua ricerca linguistica e tecnica. Forme organiche pulsanti di vita che sono il frutto - come testimonia questa mostra antologica che copre un cinquantennio di attività dell’artista, dagli esordi ai nostri giorni - di una scelta attuata progressivamente e non senza periodici ripensamenti, in direzione di un allontanamento, che oggi sembrerebbe definitivo, dai linguaggi di matrice figurativa tradizionale.

 

La storia di Sebaste è per molti aspetti paradigmatica della situazione in cui si trovarono ad operare, all’indomani del secondo dopoguerra, diversi artisti provenienti dalle regioni meridionali d’Italia. Se molti fra loro, in mancanza di istituzioni deputate alla formazione artistica di livello accademico o anche semplicemente di istituti superiori di educazione artistica, proseguendo una consuetudine plurisecolare continuavano a fare capo a Napoli per compiere i propri studi e per tentare di intraprendere una carriera in campo artistico[3], altri incominciarono a scegliere destinazioni diverse, più lontane dalle loro terre ma prossime ai centri nevralgici della produzione e del mercato artistici, come Roma e Milano. Sebaste, dopo un primo periodo di formazione presso l’Istituto d’Arte di Lecce, scelse, abbiamo detto, Firenze, come già avevano fatto prima di lui i pittori lucani Remigio e Vincenzo Claps. L’esperienza fiorentina fu fondamentale per l’artista leccese, soprattutto per il raggiungimento di una solida formazione di base di tipo sia tecnico che storico-artistico, così come ebbe altrettanta importanza il periodo successivamente trascorso a Bologna presso lo studio calcografico di Mario Leone, dove perfezionò la sua conoscenza delle tecniche incisorie.

   Tuttavia, come altri artisti meridionali della sua generazione e a differenza della maggior parte di quelli appartenuti alle generazioni precedenti, dopo il periodo di formazione Sebaste decise di ritornare al Sud, dapprima nel suo Salento e poco dopo nella vicina Basilicata, dove nel 1963 scelse di stabilirsi nella piccola e suggestiva Bernalda, arroccata e sospesa sul mare di Metaponto. Ma questa scelta non lo condusse, come pure c’era il pericolo che avvenisse e come era già avvenuto ad altri, ad una chiusura “localistica”, poiché egli avrebbe continuato ad intendere il suo territorio, oltre che come un ricchissimo serbatoio di stimoli culturali cui attingere, anche come uno dei tanti possibili punti di osservazione della realtà esterna e come base di partenza per i frequenti spostamenti fuori dai confini regionali e nazionali che il suo inesausto “nomadismo culturale”[4], insieme a un’attività espositiva via via più intensa ed estesa geograficamente, gli richiedevano.  

   La Basilicata fra la metà degli anni Cinquanta e gli anni Settanta offriva, oltre ad un habitat naturale ancora quasi integro e al fascino delle testimonianze archeologiche e storico-artistiche, un ambiente culturale ricco di fermenti e di stimoli che furono molto fecondi per l’attività creativa di Sebaste e per quella di un’intera generazione di artisti lucani[5]. In particolare Matera e il suo territorio, in quegli anni, funsero da centro propulsore regionale sul piano artistico e culturale grazie innanzitutto ad un flusso continuo di presenze di artisti, letterati, registi cinematografici, fotografi e intellettuali, da Pasolini a Lattuada, da Rosi a Cartier-Bresson, da Franco Pinna - che negli anni Cinquanta svolse in Basilicata una campagna fotografica al seguito del grande antropologo Ernesto De Martino - a Mario Cresci, da Evtuschenko a Dario Bellezza, fino a molti noti pittori e scultori; tutti nomi che hanno contribuito, in fertile sinergia con le forze locali, a rendere la Basilicata un contesto culturale assai più ricco di quanto comunemente si creda. Matera aveva incominciato ad emergere progressivamente come centro culturale negli anni Cinquanta, in un primo momento sulla scia di un’attenzione nazionale e internazionale venutasi a creare a causa dell’emersione delle problematiche relative alle condizioni di vita nell’abitato storico, che vennero affrontate, com’è noto, varando un programma urbanistico che prevedeva l’evacuazione della popolazione dai Sassi per trasferirla in quartieri edificatiex-novo, come il borgo della Martella, la cui costruzione fu avviata nel 1951 ad opera di un gruppo di architetti guidati da Ludovico Quaroni, il quale chiamò i fratelli Cascella e altri artisti alla realizzazione delle decorazioni e degli arredi della chiesa di San Vincenzo de’ Paoli, da lui progettata. Il cantiere della Martella, al di là della discutibilità dei concetti sociologici e urbanistici su cui si fondava[6], funse, anche attraverso il laboratorio di ceramica che vi si venne contestualmente a creare, da prima cellula di quel risveglio culturale cittadino per il quale fu di primaria importanza la fondazione nel 1959 del Circolo Culturale La Scaletta, i cui soci, fra i quali si annoverava anche Sebaste, sono stati e sono tuttora attivi promotori di eventi vòlti tanto alla salvaguardia e valorizzazione del patrimonio storico e delle risorse culturali locali, quanto alla conoscenza della produzione artistica nazionale e internazionale[7]. Grazie alle numerose mostre organizzate nel tempo da La Scaletta in uno scenario storico, quello dei Sassi, che veniva per la prima volta rivalutato culturalmente e proposto come luogo espositivo per l’arte contemporanea, hanno soggiornato a Matera e nella regione, dagli anni Sessanta ad oggi, artisti di rango internazionale come Josè Ortega, Pietro Consagra, Lucio Del Pezzo, Mino Maccari, Ernesto Treccani, Sebastian Matta e molti altri, che hanno lasciato nella città e altrove tracce del proprio lavoro. Artisti che Sebaste ha conosciuto personalmente e che hanno costituito per lui, come ha spesso dichiarato, degli importanti termini di confronto, così come ha avuto grande rilievo per la sua maturazione artistica e culturale la sua frequentazione di artisti e intellettuali del luogo o attivi anche sul luogo, come il pittore Luigi Guerricchio, il critico d’arte Giuseppe Appella, il poliedrico ingegnere, poeta e disegnatore Leonardo Sinisgalli e i poeti Mario Trufelli, Raffaele Nigro e Leonardo Mancino; con questi ultimi quattro ha collaborato nella realizzazione di libri d’arte editi dalla sua casa editrice La Spiga d’Oro e corredati da incisioni da lui stesso eseguite presso il suo laboratorio calcografico[8].

   Dunque alla crescita culturale del suo territorio Sebaste ha contribuito anche attraverso l’attività editoriale e prima ancora con la fondazione nel 1966, insieme alla moglie Jolanda Carella, del laboratorio di incisione Sebaste - Carella a Bernalda, allora l’unico esistente in Basilicata, cui fece seguito a Matera la Scuola Libera di Grafica, fondata nel 1976 da Sebaste insieme a diversi altri artisti lucani, come “costola” del Circolo La Scaletta, allora da lui stesso presieduto[9]. Raccogliendo un suggerimento del suo ex-maestro di grafica Mario Leone, Sebaste concepì per Matera l’idea di una scuola - laboratorio che fosse anche un centro di aggregazione e di scambio culturale; nel 1988 la scuola assunse il nome di Grafica di via Sette Dolori ed è tuttora operativa grazie a due dei suoi soci fondatori, Vittorio Manno e Angelo Rizzelli, che vi portano avanti un’attività grafica di notevole interesse. Fin dalla loro fondazione questi laboratori di incisione hanno avuto un ruolo rilevante sul territorio sotto il duplice aspetto della produzione incisoria autonoma o di mano di altri artisti lucani e della conservazione di preziose testimonianze grafiche del passaggio in Basilicata di molti fra gli artisti italiani e stranieri che abbiamo citato, i quali hanno eseguito opere in entrambi i laboratori. Presso la Pinacoteca di Bernalda ad esempio, si conservano delle incisioni firmate da Joseph Beuys[10], così come disegni e acqueforti di Levi, Ortega, Consagra e Tono Zancanaro, pittore e incisore veneto che strinse con Sebaste un rapporto privilegiato. Direttore della Pinacoteca è fin dal 1998, anno della sua apertura, lo stesso Sebaste, che in questa veste ha confermato e consolidato il suo interesse ad impegnarsi anche sul fronte della promozione culturale; interesse che d’altronde è pienamente coerente con la sua convinzione, più volte ribadita, dell’importanza per l’artista e per l’arte di assolvere anche a un compito di comunicazione sociale. In passato, aveva già costituito un segno di tale propensione la sua partecipazione alla Cooperativa Arti Visive Quinta Generazione, fondata a Potenza nel 1982 da un gruppo di artisti e critici d’arte[11] che produssero fra l’altro l’interessante esperienza editoriale della rivista «Perimetro», assolutamente innovativa per la Basilicata, coinvolgendo in essa personalità culturali di primo piano, fra cui Filiberto Menna, Achille Bonito Oliva, Enrico Crispolti, oltre a vari altri critici d’arte allora emergenti. Sebaste non è stato il solo, in Basilicata, ad affiancare all’attività artistica quella da operatore culturale: su una strada simile si sono mossi fra gli anni Sessanta ed oggi, con finalità auto-promozionali e di promozione artistica e culturale in genere, anche altri artisti, come ad esempio Franco Di Pede a Matera e Nino Tricarico[12] e Francesco Ranaldi a Potenza, i quali hanno lungamente tentato di sopperire con la loro iniziativa a una sostanziale mancanza, protrattasi fino agli anni Ottanta - Novanta, sia di proposte istituzionali locali, che di un coinvolgimento degli artisti operanti sul territorio in manifestazioni di carattere nazionale.

 

   Nella sua scansione cronologica, la mostra odierna documenta per esempi salienti le varie tappe segnate nel tempo dalla produzione artistica di Sebaste, che ha esordito alla fine degli anni Cinquanta nell’alveo di un neorealismo in chiave popolare con forti accenti espressionistici,per giungere progressivamente, a partire dalla metà degli anni Settanta, a una forma di astrazione a metà strada tra Informale materico, Espressionismo astratto e Surrealismo organico, nutrita da una continua sperimentazione di materiali e tecniche (cera, catrame, polveri e sabbie, cartapesta, olio, collage) e da una grande varietà dei campi di applicazione, dalla pittura alla scultura, dall’incisione al libro d’artista.

   Le prime opere esposte parlano un linguaggio figurativo duro e scarno, di chiara ascendenza espressionista, anche quando, come nel caso del Paesaggio del 1963, vi si possono rintracciare pure influenze diverse di marca toscana, in direzione di una semplificazione formale risalente da Rosai fino a Giotto; lezioni apprese da Sebaste, insieme a molte altre, durante il suo soggiorno fiorentino. Tuttavia, diverse da quegli esempi sono la qualità del colore e la sua stesura: un colore spesso e talvolta opaco e gessoso, come in Donna lucana, anch’essa del 1963,e già in questa fase tendenzialmente materico, applicato sulla tela ad ampie spatolate con una ricercata brutalità che può a buon diritto richiamarsi ai precedenti della Brücke, di Nolde o di Rouault, così come sembra guardare anche a Munch l’interpretazione cupa fino all’angoscia di una figura umana vista sempre in chiave “antigraziosa” (si veda ad esempio Corteo, 1967). In questa fase i soggetti, siano essi paesaggi, figure o scene di vita quotidiana, attingono a una realtà lucana caratterizzata da marginalità e indigenza, alla cultura agro-pastorale e ai suoi rituali ancestrali, seguendo una strada che era stata aperta in Basilicata da Carlo Levi, il quale negli anni Trenta, con i suoi tormentati dipinti “del confino” e successivamente con il suo ben noto capolavoro letterario Cristo si è fermato ad Eboli,aveva fornito ad artisti e scrittori delle nuove lenti attraverso cui guardare alla loro terra.

   Nella struttura formale dei dipinti appartenenti a questa fase della produzione di Sebaste è già possibile cogliere un’iniziale tendenza a una semplificazione delle figure per piani e segmenti cromatico-lineari approssimativamente geometrici, come rivela ad esempio, fra le opere esposte in questa mostra, la Testa di musa del 1961, enigmatica icona tricefala dalle inflessioni post-cubiste che sembra segnalare anche una qualche inclinazione, per il momento sporadica, verso un uso simbolico dell’immagine.

   Sul finire del decennio Sessanta, dopo avere prodotto interessanti lavori scultorei in ferro per committenti ecclesiastici[13] e avere realizzato dipinti in cui il motivo naturalistico di partenza tendeva ad essere assorbito da un impasto cromatico di tipo già quasi informale - come l’ardente e quasi soutiniano Vaso di fiori del 1968 o i Calanchi del 1969, oppure, fra le opere non esposte oggi, il pannello in gesso policromo la Primavera[14]- inaspettatamente l’artista, con uno di quei “colpi di coda” che sarebbero stati ricorrenti nella sua carriera, cambiò direzione, compiendo un singolare processo a ritroso rispetto al linguaggio tendenzialmente astratto che aveva appena incominciato a sperimentare. La strada intrapresa fra il 1969 e la prima metà del decennio seguente fu infatti quella di una ritrovata e rinnovata figurazione neorealistica dagli accenti popolareschi spinti talvolta fin quasi alla naïveté, incentrata su tematiche tratte dalla vita popolare lucana e pugliese e sottoposta a forzature e deformazioni espressionistiche che appaiono memori dell’espressionismo sociale di Renato Birolli e Fausto Pirandello, oltre che, come è stato scritto, di Migneco, Guttuso e Brindisi[15]. Sulla luminosità calcinata di vuoti fondi bianchi si stagliano con un risalto e con una fissità, come rileva Spadoni, quasi araldici[16], compatti nuclei figurali campiti in colori accesi fino allo squillo, aggregati in blocchi geometrizzanti e astraenti che erano stati preannunciati dalle taches cromatiche informali sperimentate dal pittore nel 1967, in dipinti astratti ispirati al paesaggio urbano materano come Alba al Sasso e Il Sasso.

   Dunque Sebaste recuperò la figurazione solo dopo averne preventivamente operato una riduzione all’essenza che venne a fungere da filtro attraverso cui guardare al reale con una sensibilità nuova e da una distanza atta a consentirne una resa mentale, più che mimetica. In questa fase della ricerca dell’artista si segnala un’opera come La spia, notevole per la sua visionarietà allucinata dalla eco goyesca, esaltata da un’ardita e originale soluzione compositiva, in cui dal centro del fondo di un bianco assoluto emerge, quasi uscisse da un’invisibile fenditura, una minacciosa figura femminile velata intenta a spiare un groviglio di personaggi concentrati nella parte bassa della tela, dai volti grotteschi e dai corpi deformi e contorti come in un sabba di streghe o in un cupo e inquietante rituale magico. La magia e le credenze popolari sono tematiche ricorrenti in questo ciclo pittorico (si vedano anche, in questa mostra, Magia lucana e Tarantolati), dove la tendenza alla deformazione espressionistica giunge talvolta a risultati accostabili agli esiti visionari della produzione pittorica degli anni Sessanta - Settanta di Guerricchio.

   La lente antropologica attraverso cui Sebaste, lettore di De Martino, guardava con occhio disincantato e scevro da intenti pittoreschi alla cultura popolare lucana e salentina, non bastava a scongiurare il pericolo di una lettura di questi suoi lavori in una chiave localistica e dialettale, direzione verso la quale si orientò di fatto una parte dei giudizi critici, seppure favorevoli all’artista. È forse anche in risposta a queste interpretazioni che avrebbero rischiato di relegarlo entro gli angusti confini di un folklorismo di maniera, che fra il 1972 e il 1975, in dipinti come L’uomo uccello, esposto in questa mostra, o come Venditore di pannocchie e I suonatori, l’artista sviluppò il suo linguaggio figurativo in una direzione maggiormente aggressiva, sfigurando i volti dei suoi personaggi fin quasi a cancellarne le fisionomie e attuando così un violento processo di de-figurazione che sembra riagganciarsi ai furiosi attacchi inferti da Bacon all’immagine antropomorfa. Sono, queste, raffigurazioni drammatiche che lasciano trapelare una visione angosciosa e violenta del mondo naturale cui non sembra estranea anche la conoscenza di Sutherland e Moore e del filone organicistico-astratto del Surrealismo; in esse il corpo umano tende ad assumere una qualità metamorfica fino a diventare motivo genericamente organico, conglomerandosi in catene di protuberanze bulbose di evidenza tridimensionale in cui si ibridano e si confondono i mondi antropomorfo, zoomorfo e fitomorfo, in un groviglio inestricabile di membra umane e animali e di elementi vegetali arborei o fogliacei (si vedano Uccello rosso; Settima piaga; Ottava piaga).

   Ben presto tali motivi organici, procedendo nel loro cammino verso un completo affrancamento da ogni sembianza di illusionismo figurativo, persero anche la loro apparenza volumetrica per appiattirsi e dilatarsi sulla tela in ampie concrezioni astratte sature di un colore opaco e grumoso e riecheggianti, nel loro ricercato primitivismo, l’aggressivo espressionismo astratto di Asger Jorn e degli altri esponenti del gruppo cobra, i quali oltretutto erano transitati per la Basilicata in quello stesso periodo[17]. Anche sotto questa nuova forma permasero nelle opere di Sebaste riferimenti tanto al mondo naturale - il cordone ombelicale che lo legava al quale non si sarebbe mai sciolto - quanto a quelle manifestazioni della cultura popolare che hanno carattere magico e irrazionale, come evidenziano fin dai loro titoli i dipinti del 1975 che qui si espongono: Natura con uccelli; Elementi magici; Occhio metallico.

   Il salto che separa questi ultimi lavori dalle opere di poco successive di Sebaste è essenzialmente di tipo tecnico. Alla prassi tradizionale dell’olio su tela egli andò sommando tecniche miste in cui sperimentava l’uso di polveri e sabbia mescolate ai pigmenti, per poi procedere a graffire e raschiare, nella serie dei Grafismi, le superfici materiche così ottenute. In questo periodo incominciò anche a utilizzare materiali extra-pittorici come stracci e carta, che conferendo alle opere consistenza oggettuale e rilievo plastico, gli permisero di superare definitivamente il confine tra pittura e scultura in nome di un polimaterismo in virtù del quale un critico d’eccezione come Leonardo Sinisgalli ha accostato il nome di Sebaste a quello di Prampolini[18]. Inoltre a partire dal 1977 l’artista iniziò ad indagare anche le possibilità offerte dalla cartapesta, antica tecnica artigianale propria della cultura popolare salentina e materana. E proprio a Matera, dove era stato invitato nel 1972 dal Circolo La Scaletta, José Ortega, artista esule dalla Spagna franchista che Sebaste conobbe e frequentò, aveva dato per primo il via a un recupero con finalità artistiche della cartapesta, nell’ambito di un suo più ampio programma di rivalutazione dell’artigianato che ebbe notevole influenza sugli artisti locali e che generò capolavori della sua produzione come i cicli a bassorilievo in cartapesta dipinta Morte e nascita degli innocenti e Passarono, da lui realizzati a Matera nel 1973, in collaborazione con gli artigiani locali[19].

   In lavori realizzati fra il 1976 e il 1977, come Uccello ferito, Bosco suonato e Chioma, una forma-colore di ispirazione organica sembra lievitare sul supporto come per uno spontaneo processo di crescita, per fluttuare liberamente nello spazio, al quale si collega con naturalezza grazie ai suoi fluidi profili curvilinei. «In natura», scrive Sebaste nel suo diario, «non esistono linee diritte. Io penso che la linea diritta è essenzialmente un prodotto dell’uomo»; e ancora: «Del resto il corpo umano forse non è composto da linee curve? Qualsiasi movimento del corpo non è forse un movimento curvilineo? L’atto del concepimento di qualsiasi essere vivente non avviene in una cavità priva di linee diritte? Senza contare poi il seme che, già di per sé, è l’insieme di linee curve»[20]. L’ispirazione alla natura creatrice per Sebaste, lungi dal comportare un’imitazione delle sue apparenze esteriori, si traduce, sulla scia del biomorfismo di Arp e Moore, nel tentativo di catturarne le leggi generative profonde e di coglierne la segreta armonia estetica.

   All’esuberanza cromatica caratterizzante la gran parte dei suoi lavori l’artista alternava, tra la fine degli anni Settanta e i primi anni Ottanta, l’azzeramento coloristico di rilievi dalla dominante bianca, interamente monocromatici oppure interrotti da tenui lacerti di colore (Misteri; Archetipo in piega rossa), dove forme astratte quasi danzanti si susseguivano spesso in un andamento circolare o spiraliforme. Tale ricerca di movimento andò accentuandosi in opere di più risentita intensità cromatica, come, fra quelle che esponiamo oggi, Ultimo volo e Domani l’anima, dove la composizione, contenuta quasi sempre in un supporto di formato quadrato, è spesso strutturata in due nuclei formali che si controbilanciano, l’uno posto in prossimità della base dell’opera e l’altro tendente a sfuggire verso il margine superiore. In queste Forme formanti - come inizialmente Sebaste aveva denominato questi lavori, quali esiti conclusivi di un percorso astrattivo iniziato con i Grafismi del 1976 e poi passato attraverso le Materie ele Forme formate - egli sembra mettere in atto il suggerimento datogli da Sinisgalli di «accostarsi devoto alle larghe cosmogonie di Kandinski e al laboratorio di Prampolini (…) due insigni speculatori delle Forme e delle Materie non convenzionali»[21].

   Ma ancora non erano definitivamente acquisiti, per Sebaste, né l’allontanamento dalla figurazione in favore dell’opzione astratta, né l’abbandono della pittura ad olio su tela a beneficio del linguaggio informale materico. Dopo la calma apparente, ma gravida in realtà di presagi figurali, costituita dai Frammenti di memoria del principio degli anni Ottanta, dove su schermi bianchi affiorano come fantasmi dei lievi motivi cromatico - decorativi in forma di sottili frammenti serpeggianti, fra quel decennio e la prima metà del successivo, in pieno clima di ritorno alla pittura, di Neoespressionismo e di Transavanguardia, esplose una nuova stagione pittorica dell’artista in una serie di oli su tela di dimensioni spesso ragguardevoli, caratterizzati da un’inedita energia segnico - gestuale e da un recupero soltanto parziale del linguaggio figurativo. In dipinti del 1986 come E creò il sole; Linea verde; Ed Eolo si tuffò nella luce, elementi iconici allo stato larvale sono avvolti in grovigli e matasse di segni grafici dotati di una forte carica cinetica, che sembrano voler stabilire un dialogo a distanza con la produzione incisoria dell’artista. Sono dipinti pregni di un vigore primitivo, dove lo scarabocchio infantile e il graffito metropolitano (Sebaste aveva conosciuto il graffitista statunitense A One) si alleano per concorrere al raggiungimento di un’espressività barbarica e intensamente vitale. In certe opere, come Movimento (1987), il segno grafico prende la forma di sottili e animate figurine antropomorfe di intonazione arcaica, che appaiono esemplate sul modello dei guerrieri stilizzati presenti nei graffiti rupestri preistorici.

   A partire dai primi anni Novanta, mentre in vari pastelli e incisioni di Sebaste la raffigurazione naturalistica continuava a permanere, nella sua produzione pittorica le tracce figurative andarono invece nuovamente scomparendo e al segno grafico si venne sostituendo un fare più largo, impostato su ampie stesure a spatola e sgocciolature di colori, come di consueto, accesi e saturi (I cinti; Canale verde; Grida in arancione). Un’ulteriore svolta tecnica e linguistica nel percorso dell’artista venne segnata, intorno alla metà degli anni Novanta, dalla realizzazione di piccole sculture informali a tutto tondo in cartapesta variopinta e di opere pittoriche su supporto in cartone ondulato e con inserti di altri materiali, dove l’impulso cinetico - gestuale e la pratica polimaterica e oggettuale venivano finalmente a incontrarsi (Gioco nel sonno; Natura morta; Casetta; Forme impazzite). Ne nacque la serie, ancora oggi in corso, denominata in una mostra del 1997 Carta e cartoni[22]; in essa la commistione di tecniche e materiali diversi, dalla cartapesta al cartone e al sughero, dal colore a olio a quello acrilico, dalla sabbia alla colla vinilica e alla fiamma ossidrica, ha condotto ad esiti di maggiore ricchezza e complessità rispetto al passato. L’impalcatura formale di queste opere è impostata sulla dialettica che si stabilisce fra una giustapposizione di stratificazioni materiche e cromatiche che tendono spesso a travalicare i margini del supporto rendendoli irregolari, e un tracciato segnico - gestuale di superficie, quasi sempre costituito da colate biancastre di colla che sotto l’azione del fuoco, che annerisce e sfoglia il supporto in cartone, si rigonfiano di bolle ed esplodono in crateri (Rossa schiuma di mare; Acqua della fonte pura; Venti rapidi; Urna di corpi svuotati; Maligna vivanda; Splendido Argonauta, Arsura).

   Alla moltiplicazione dei mezzi e delle tecniche impiegati, dove si sommano senza escludersi vicendevolmente le esperienze compiute dall’artista nel tempo, corrisponde una fervida proliferazione formale che rende questi lavori brulicanti di una misteriosa vitalità animistica riecheggiante gli esempi di Mirò, Gorky, Matta, Lam. Tra le ambigue forme organicistiche che si avvicendano sulle tele e sui cartoni (l’ambiguità è per Sebaste positivamente connaturata alla genesi della forma e alla sua interpretazione[23]) occhieggiano talvolta altrettanto ambigue creature dalle sembianze androidi, forse lontanamente imparentate con quelle concepite dall’immaginario grottesco di Baj, uno fra gli artisti che Sebaste conobbe personalmente.

   Nell’ultimo decennio la ricerca dell’artista ha continuato a svolgersi parallelamente in pittura e scultura, ambiti che nella sua produzione, pur comunicando fra loro, hanno mantenuto ciascuno una propria specificità. Ai due elementi - chiave intorno ai quali aveva ruotato finora gran parte dei suoi lavori, la natura e la cultura popolare, nelle sue opere recenti è venuto ad aggiungersene un terzo: quello di una classicità mitica scaturente ancora dalle radici culturali del suo territorio, in questo caso quelle magno - greche, come ha ampiamente documentato una mostra personale svoltasi nel 2009 presso la Permanente di Milano[24], città con la quale Sebaste ha da tempo stabilito un rapporto privilegiato. Già le denominazioni delle opere sono rivelatrici di quali siano in questa fase i referenti di Sebaste: a titoli, in pittura, come Mare Ionio, Artemide, Masciara, Talismano, rispondono in scultura titoli come Atena, Nike, Alessidamo, Era, Afrodite, Amazzone alata, Divinità, Fertilità, Sparviero,in un’alternanza fra divinità greco - classiche e lucane arcaiche, fra rimandi al paesaggio naturale e alla magia popolare. La dimensione antropologica e il genius loci vengono ora recuperati da Sebaste nell’ambito di un linguaggio che sembra avere definitivamente rinunciato ad ogni forma di mimesi per imboccare con decisione la strada dell’astrazione informale.

   Alcuni lavori degli ultimi anni mostrano dimensioni ipertrofiche, recuperando, nel caso dei dipinti/rilievi su tela a sviluppo orizzontale, una dimensione quasi narrativa, da affresco, e un andamento formale vivacemente ritmico, come nel pannello Emozioni (2000). Spesso i dipinti a sviluppo verticale hanno al proprio centro un elemento lineare saliente che funge da asse ottico della composizione, equilibrandone le parti (Mare Ionio, Talismano). Questi lavori pittorici dalle forti connotazioni materiche e gestuali sono spesso caratterizzati anche dalla presenza di vivide, energetiche cromìe mediterranee[25].

   Nelle sculture, che sono tendenzialmente monocrome, Sebaste alterna essenzialmente due registri linguistici, corrispondenti ad altrettanti modi di “abitare” lo spazio: un registro di carattere volumetrico e informale, utilizzato nelle terrecotte, e uno di carattere bidimensionale e geometrizzante, usato nelle realizzazioni plastiche in cartapesta o in metallo. Organico e carnale è il modellato sensibile delle argille, che crescono nello spazio in forme totemiche come fossero germinate dalla terra stessa, riallacciandosi ai precedenti di Leoncillo e del Fontana scultore (che Sebaste ha conosciuto di persona), ma anche a certe statuine femminili di epoca preistorica, come quelle liguri dei Balzi Rossi. Astratte e mentali appaiono invece le bianche sculture in cartapesta su scala umana, frutto di un’originale sperimentazione che l’artista conduce da anni su tecniche di indurimento e di impermeabilizzazione tramite particolari vernici della cartapesta, che possano consentirne la collocazione in ambienti esterni. Si tratta di strutture spesso modulari, di consistenza diaframmatica, dove il dato antropomorfico di partenza viene maggiormente concettualizzato rispetto a quanto avviene nelle terrecotte, decantandosi in forme geometriche arcaizzanti e «primitive, non nate col righello e la squadra ma con l’imprecisione della mano che trema e del sole che asciuga e che crepa»[26].

   La sostanziale bidimensionalità di queste sculture era stata preannunciata, circa un decennio prima, dalla realizzazione di opere scultoree “frontali” in metallo sagomato e traforato che guardavano all’esempio di Consagra, altro importante punto di riferimento per Sebaste[27] (si veda, in questa mostra, Reliquiario messapico). Un rilevante esito recente di questo genere di realizzazioni plastiche di carattere bidimensionale in metallo, che svelano anche influenze picassiane e post-cubiste, è stato costituito dall’installazione scultorea di dimensioni ambientali Mètabos, dedicata all’omonimo eroe mitico fondatore di Metaponto e collocata nella cittadina ionica.

   Oggi, con un cinquantennio di carriera alle spalle, l’artista prosegue nella sua inesausta ricerca estetica, continuando a rispondere alle infinite sollecitazioni naturali e culturali offertegli dalla propria terra e tuttavia evitando programmaticamente che queste risposte assumano carattere definitivo, coerentemente con la sua convinzione che un artista non debba mai adagiarsi sulle proprie conquiste e debba invece restare sempre aperto al dubbio e alla domanda. «Io penso», scrive nel suo diario riferendosi ai Sassi di Matera, «che ancora nel nostro Sud si possa parlare di forme spontanee, create tridimensionalmente all’infinito, a modello dell’uomo. In questo ambiente pieno di stimoli e di riflessioni mi viene naturale chiedermi: che cosa è l’arte contemporanea?»[28].



[1] S. Sebaste, Pensieri in movimento, con presentazione di A. De Siena, Novaluna, Brescia 1998
[2] Sulla produzione grafica di Sebaste, vedi E. Pozzetti (a cura di), Salvatore Sebaste. Grafica, con presentazione di P. Bellini, Consiglio Regionale della Basilicata, 2006.
[3] Riguardo alla situazione artistica napoletana e meridionale nel Novecento, rimando ai recenti studi di M. Picone Petrusa, La pittura napoletana del Novecento, Napoli, Franco Di Mauro, 2005, e di M. Bignardi, La pittura contemporanea in Italia meridionale. 1945-1990, Napoli, Electa Napoli, 2003.
[4] Circa il “nomadismo” di Sebaste si veda quanto osserva Claudio Spadoni in R. Cardone, Salvatore Sebaste, Pinacoteca d’Arte Moderna Bernalda-Metaponto, 1999, pp. 7-10.
[5] Piuttosto esigua è la bibliografia esistente sull’arte lucana del Novecento nel suo complesso; fra i contributi utili recenti, segnalo R.Cardone, Convergenze. Aspetti dell’arte in Basilicata tra Ottocento e Novecento, Bernalda, Pinacoteca Comunale d’Arte Moderna Bernalda-Metaponto, 1999; M. Cuozzo, Dentro e oltre il “luogo”. Tracce per una storia dell’arte in Basilicata nel Novecento, in AA.VV., Potenza Capoluogo (1806-2006), Edizione Speciale per il Bicentenario di Potenza Città Capoluogo, a cura della Deputazione di Storia Patria per la Lucania e del Comune di Potenza, Edizioni Spartaco 2008, pp.955-973; G. Valente, Miticalucaniamagica: una straordinaria stagione in un viaggio tra incanti, voci e arte, Potenza, Provincia di Potenza, 2007
[6] Nettamente negativo sotto quest’aspetto, ad esempio, è il giudizio di Cesare De Seta sull’esperienza della Martella, giudicata «ingrata e fallimentare» in quanto basata su «false idee sociologiche» che «furono incapaci di interpretare il rapporto secolare che si istituiva tra habitat preesistente e popolazioni che lo abitavano», strappando la popolazione al suo ambiente naturale, sociale, economico. «Ciò non toglie», aggiunge De Seta, «che l’esperienza della Martella fu una prova di rilievo per tutta la cultura architettonica italiana». Cfr. Cesare De Seta, L’architettura del Novecento, Torino, UTET, 1981, pp.110-115.
[7] Sull’attività della Scaletta dalla sua fondazione al 1973 si veda F. Palumbo, Il contributo del mondo artistico al fermento culturale di Matera, estratto da «Matera», Rassegna Economica della Camera di Commercio, Edizione Speciale, n.5, maggio 1973, Matera, BMG, 1973.
[8] Questa produzione di Sebaste è stata esposta, in rassegne sul tema del libro d’artista, nel 1992 al Musem of Modern Art di New York e nel 1994 al Museo Guggenheim di Venezia, ed è citata in Ralph Jentsch, I libri d’artista italiani del Novecento, Allemandi, Torino, 1993, p.317.
[9] Sebaste fu presidente del Circolo Culturale La Scaletta dal 1975 al 1977.
[10] Su questa poco nota produzione di Beuys, si veda M. Cuozzo, Una traccia di Beuys in Basilicata: le incisioni della Pinacoteca di Bernalda, in Joseph Beuys: viaggio in Basilicata, catalogo della mostra a cura della Fondazione Southeritage di Matera, Matera, Fondazione Southeritage, 2004.
[11] La rivista, che aveva cadenza trimestrale, fu diretta da Renato Cantore per breve tempo e poi da Rino Cardone e Giovanni Cafarelli. Vi presero parte gli artisti Felice Lovisco, Marco Santoro, Gerardo Cosenza, Arcangelo Moles, Giuseppe Filardi, Salvatore Comminiello, Luigi Lapetina e Vincenzo Dettole (cfr. R. Cardone, SalvatoreSebaste, cit., pp.81-82).
[12] Cfr. M. Cuozzo, Nino Tricarico, catalogo della mostra presso il Museo d’Arte Medioevale e Moderna della Basilicata, Palazzo Lanfranchi, Matera, 2009.
[13] Sebaste realizzò nel 1965, per la Chiesa Madre di Policoro, il bassorilievo I simboli della chiesa, e per la Madonna degli Angeli di Bernalda la scultura Cristo in croce.
[14] Realizzato nel 1968 per la Scuola media “Pitagora” di Bernalda.
[15] Cfr. Ròiss, testo critico in catalogo della mostra personale di Salvatore Sebaste presso la Galleria Nucleo, Bologna, 1973.
[16] Cfr. C. Spadoni, op.cit., p.8.
[17] Alcuni componenti del gruppo, Corneille, Jorn e Rooskens, soggiornarono nel 1973 a Rivello su invito del gallerista Vincenzo Bitetti. Cfr. CARDONE, Convergenze, pp.54 -55.
[18] Cfr. L. Sinisgalli, Per Sebaste, in Salvatore Sebaste. Archetipo in piega rossa, catalogo della mostra, La Spiga D’Oro, 1980.
[19] Su Ortega si veda, fra i contributi più recenti, G. Bruno, José Ortega. Realismo e identità mediterranea, catalogo della mostra al Museo Barbella di Chieti, Vallecchi, 2009.
[20] S. Sebaste, op.cit., pp. 14,9.
[21] L. Sinisgalli, op.cit.
[22] AA.VV., Sebaste. Carta e cartoni (con antologia di testi critici), Matera 1997.
[23] Cfr. S. Sebaste, op.cit, pp. 69, 72.
[24] Cfr. G. Seveso e M. Torelli, Mazzotta e Sebaste. Percorsi, catalogo della mostra, Società per le Belle Arti ed Esposizione Permanente, Milano 2009.
[25] Sui lavori di Sebaste di questo periodo vedi R. Cardone, Policromie plastiche, in Sebaste, catalogo della mostra al Palazzo dell’Annunziata di Matera, Pinacoteca Comunale d’Arte Moderna e Contemporanea di Bernalda-Metaponto, 2000; E. Pontiggia, Salvatore Sebaste. La vitalità e il mistero, catalogo della mostra alla Galleria Le Opere di Roma, 2002; F. Patruno – E. Pozzetti, Salvatore Sebaste.Alchimia della metamorfosi, catalogo della mostra presso l’Istituto di Cultura Casa Giorgio Cini di Ferrara, 2003.
[26] R. Nigro, La passione popolare di Sebaste, in Salvatore Sebaste. Metafora della memoria, catalogo della mostra alla Galleria Idearte di Potenza, 2005.
[27] Cfr. L. Fabrizi, Palinsesti della materia. Spazio e tempo nella scultura di Salvatore Sebaste, inL. Fabrizi – A. Lejacard, Salvatore Sebaste, catalogo della mostra Mètabos presso il Museo Archeologico Nazionale di Metaponto, 2007, p.6.
[28] S. Sebaste, op. cit., p. 25.