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Elena Pontiggia, dal catalogo “La vitalità e il Mistero”, 2002

Il lavoro di Salvatore Sebaste si colloca, non da oggi, nell’ambito della ricerca informale: nell’ambito cioè di quella ricerca sulla libertà del segno e della forma che ha interessato buona parte della seconda metà del secolo.
In questo alveo (nell’alveo, vogliamo dire, di quella che è stata efficacemente chiamata, in una mostra recente, “la vertigine della non forma”) Sebaste ha trovato un approdo intenso e singolare.
Le sue origini, infatti, vengono da lontano. Nelle sue stagioni precedenti, supe-rata una fase giovanile impegnata in un dialogo con la figurazione, Sebaste ha trovato nel surrealismo il linguaggio più adatto ad esprimere quel senso di vitali-tà e di mistero che sentiva urgere dentro di sé e a cui, dunque, voleva trovare un esito stilistico.
Parliamo di surrealismo in senso lato, si intende. Ma se per surrealismo si in-tende un’arte che lascia parlare l’inconscio, che gioca con l’evocazione del rea-le, ma anche con ciò che è oltre la realtà immediata (surrealismo deriva da “surnaturalisme”: termine coniato da Apollinaire e ripreso in forma condensata da Breton), certo troviamo nei quadri di Sebaste degli anni ottanta qualcosa che vi si avvicina.
Penso ad opere come Ricorre nell’aria il falco, come Nuvola turchina come Prato Rosso, e se ne potrebbero citare molte altre.
Sono tutte opere ispirate alla natura, certo: opere che traggono ispirazione, e-nergia e per così dire nutrimento dallo spettacolo stesso della natura. Ma quale natura? Potremmo chiederci.
Ecco, la natura in Sebaste è qualche cosa di non immediatamente evidente. E’ qualche cosa che si popola di fantasmi e di sogni, di presenze inquiete e inquie-tanti. Insomma di mistero.
E veniamo ad uno dei centri focali della sua poetica: il mistero. Diceva Licini in una sua poesia: ”Dimmi qualcosa che non sia un miracolo”. E intendeva dire che tutto è strano, inspiegabile, e quindi meraviglioso. Tutto è misterioso: può essere anche un incubo.
Sebaste dunque parte dall’osservazione, o dal sogno, o dal ricordo di un evento naturale, ma lo carica di dubbi, di mistero appunto. E allora ce ne dà un eco, una memoria, in cui non ritroviamo più le fattezze usuali, ma piuttosto la consa-pevolezza che la realtà non è quello che vediamo. E’ soprattutto quello che non vediamo.
Ma il periodo che abbiamo chiamato “surrealista” (etichetta sempre da porre fra virgolette, si intende. Del resto, come diceva Mallarmè, la poesia si fa con le pa-role, non con le teorie. E la pittura, potremmo parafrasare, si fa con i colori e i segni, non con le definizioni) lascia il posto negli anni novanta, e nella ricerca che dura fino ad oggi, ad un ulteriore scatto verso la libertà della forma.
Verso la non-forma, potremmo dire.
Abbiamo parlato di “informale”. Com’è noto l’informale nasce negli anni quaran-ta, in uno dei periodi più tragici della storia dell’umanità. Erano gli anni della guerra mondiale, gli anni della bomba atomica, gli anni in cui per la prima volta l’uomo poteva mettere in dubbio, con le proprie armi, la sua stessa possibilità di sopravvivenza.
Perché diciamo queste cose, e che cosa c’entrano con Sebaste? C’entrano po-co. Ma ci serviva riandare con la memoria alla grande vicenda dell’informale, di cui Sebaste ha sapientemente colto la lezione, appunto per notare la differenza.
Sebaste, vogliamo dire, ha appreso dall’informale la capacità di affidarsi com-pletamente al pennello e alla materia pittorica. Ha capito che la pittura ne sa di più dei pittori, di ogni pittore. Dunque bisogna lasciarla fare. Sebaste, allora, la-scia che la linea si carichi di materia, si gonfi dinamicamente, corra lungo i mar-gini della tela e poi precipiti al centro, si trasformi in macchia, in colatura, in gor-go. E poi, ancora, si rapprenda, si disfi e si rianimi. E la stessa cosa avviene al colore, che si mescola con la materia, in una germinazione continua.
Tutte queste cose ritroviamo nella sua pittura. Però, poiché Sebaste vive in una specie di paradiso terrestre, in una terra millenaria che piacque ai Greci e a Pi-tagora e che ancora adesso partecipa molto meno di altre terre alla distruzione della natura che il ventesimo secolo ha operato. Poiché Sebaste, dicevamo, vi-ve in questa sorta di oasi felice, dove con ogni probabilità vivono ancora anche gli dei. Per queste e altre ragioni, dunque, nella sua pittura non troveremo nes-suna traccia di quella disperazione, di quel nomadismo erratico che ritroviamo nell’informale storico.
Nelle opere di Sebaste il segno, l’assenza di segno, certe particolarità dello stile possono essere quelle dell’informale. Non il pensiero che ispira o comunque presiede il suo lavoro. Perché quello è improntato a una singolare forma di vita-lismo, di strana felicità.
La tensione espressiva dell’artista non si traduce mai in angoscia, e in dramma. Al contrario si traduce in un desiderio di moltiplicare le possibilità della pittura, di vedere a fondo le declinazioni della materia, del colore, dello spazio.
La natura rimane sempre il punto di partenza, la fonte di ispirazione del lavoro, che l’artista lo voglia o no, che ne sia consapevole o meno. Ne sono una spia i titoli, che parlano (cito a memoria e a caso, nella fertile ricerca dell’ultimo de-cennio) di una luce che tronca le ali, di brezze, gnomi e venti, di altarini di men-ta, di frustate di tempesta, di campo seminato.
Ma la natura, lo abbiamo già detto, non è per Sebaste il regno del visibile. Al regno animale, vegetale, minerale bisogna aggiungere un quarto regno: quello del mistero.
Per questo nelle opere di Sebaste c’è sempre molto da imparare. Soprattutto su quello che si crede di sapere. E, ancora di più, sul fatto che l’unica cosa che sappiamo è che sappiamo ben poco.