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Lino Cavallari, dal catalogo “Artista eclettico”, 1999

Rieccolo Sebaste, trent’anni fa una promessa dell’arte seppure alla ricerca di una sua i-dentità, com’è naturale per ogni giovane artista, e oggi, dopo aver percorso i più svariati generi pittorici (ma anche la scultura) com’è documentato in un’attenta monografia vista ancora in bozze, una certezza nel panorama culturale del Meridione, e non solo. Per di più promosso per meriti sul campo a direttore artistico della Pinacoteca comunale d’arte mo-derna di Bernalda-Metaponto, dopo aver ispirato e sostenuto la necessità di censire e ca-talogare gli artisti nati o vissuti in Basilicata, con l’incarico conferito al critico Rino Cardone di elaborare schede sugli artisti lucani dall’Ottocento al 1970, e dagli anni ’70 ai giorni no-stri. Un compito storico d’enorme portata civile, come spesso, senza menare troppi vanti, sanno portare a compimento regioni del Sud d’Italia, mentre città del Nord, onuste di dot-trina, lasciano perfino protagonisti di stagioni di gloria nell’oblio più profondo, senza uno straccio di catalogazione.
Ma ecco com’è andata con Sebaste, che in varie gallerie bolognesi, dell’Emilia Romagna e delle Marche faceva allora conoscere personaggi e tradizioni della sua terra silenziosa e assolata.
Lucania, antica terra di lupi (“lykos” in greco), di fiere genti osco-sannitiche che diedero pa-recchio filo da torcere ai latini, ai romani e alle arcaiche comunità proto-elleniche dell’Italia meridionale. Quanto nella regione sia sopravvissuto dell’indole paziente ma strategica dei primitivi abitanti andrebbe forse ricercato nei suoi discendenti più autentici che, persino nei patronimici, perpetuano un’eredità d’ostinato ma dignitoso orgoglio quasi facesse parte del patrimonio genetico. Appunto come Salvatore Sebaste di Novoli, nel Leccese, il cui co-gnome tramanda un retaggio di nobiltà e di rispetto, essendo il greco “sebastòs” l’equivalente latino di “augustus” (e non si dimentichi che quest’ultimo aggettivo contiene in sé la radice di “àugere”, vale a dire in continua crescita).
Fine delle questioni linguistiche, che peraltro hanno la loro importanza se già anticamente si diceva “Nomina sunt omina”, cioè i nomi contengono già una profezia dei destini. Cosa che è sempre vera se si è assistiti da virtù particolari. E veniamo a dire il merito, come e-nunciava il narratore della commedia dell’arte, specificando che il presente scritto - per forza di cose - non è che la testimonianza di una frequentazione amichevole riallacciata dopo circa tre decenni di interruzione.
Dunque, per inquadrare il periodo, correvano i primi anni ’70 e si vivevano giorni di grande mobilità, di entusiasmi irrefrenabili. Il “Sessantotto”, bene o male che si consideri, aveva inferto al mondo una scossa dinamica. Il filosofo tedesco Herbert Marcuse - insieme con Horkheimer e Adorno, poi messi in soffitta - era idolatrato a sinistra per le sue utopie di li-bertà, di felicità e di gioco. E a sognare un mondo migliore c’erano anche John Kennedy, papa Giovanni, Martin Luther King. Nel ’69 l’“Apollo 11” aveva portato il primo uomo sulla Luna; nello stesso anno, c’era stato il grande evento musicale collettivo di Woodstock e John Lennon cantava “Imagine”, fantasticando che tutta la gente si prendesse per mano. Ma era destinato a una incredibile fine per l’eccesso di identificazione di un ammiratore, un super-amore portato ad un’incandescenza distruttiva (a New York, metropoli gotica che per gli stravolgimenti della normalità continua ad attrarre i fantasiosi, e quindi anche Seba-ste, mi è capitato di soffermarmi a riflettere su questi paradossi della vita nel luogo preciso in cui fu colpito da rivoltellate, nel “borough” di Harlem, sobborgo degradato, proprio da-vanti al palazzone dalla facciata in mattoni rossastri e neri in cui il più rimpianto dei Beatles abitava con l’artista giapponese Yoko Ono, un posto niente affatto speciale, edilizia popo-lare, per ogni finestra un condizionatore d’aria se no d’estate si crepa; erano stati accettati dal consiglio di condominio, mentre più tardi Madonna sarebbe stata respinta perché la sua condotta non era conforme alla morale americana). Genio e sregolatezza. Guns & shots, altro che fichi d’India.
Fra tanti fermenti, fra tante bizzarrie, fra tante enunciazioni di nobilissimi propositi quanto sangue sarebbe stato versato, quanti conflitti si stavano preparando, quante speranze sa-rebbero rimaste deluse. Sebaste in quegli anni era un giovanotto sulla trentina. In mezzo a tutti questi trionfi mondiali e nazionali si affacciava alla ribalta reclamando la sua parte di attenzione con una pittura descrittiva che davvero oggi non si saprebbe come definire: ne-gazione di graziosità nella parata di personaggi e animali protagonisti di una vita umile e dimenticata, ostensione di povertà incolpevole nei gruppi di dignitosi cafoni spesso dispo-sti in veduta frontale. “Processioni profane”, le aveva chiamate il compianto (e pure lui di-menticato) Franco Solmi, studioso di sottile intuito e direttore della Galleria comunale d’arte moderna di Bologna. “Ha posto la propria candidatura per la successione a Migne-co, Brindisi, Guttuso…” affermava l’operatore culturale Rossi-Ròiss in uno dei quaderni della galleria bolognese “Nucleo” di Via Portanova, uno dei pochissimi luoghi istituzionali sopravvissuti (anche se con attività saltuaria) essendosi estinte le gallerie di quei tempi. “…Buona e forte pittura, essenziale direi, è questa di Salvatore Sebaste; sono veri racconti questi che egli presenta con un suo discorso pittorico, fatto di chiara, personale, autentica genuina poesia. Come dire umanità”, erano le parole con cui Tono Zancanaro aveva pre-sentato l’artista alla gloriosa Galleria di Palazzo Galvani. Ed Ernesto Treccani a congettu-rare, nella presentazione della personale alla “Bottega” di Lugo di Romagna, nel novembre ’70: “Le figure sofferenti e vocianti di alcune tele di Sebaste che ora traggono risalto dal biancore del fondo, domani - chissà - assumeranno altri significati di vita e di colore da una diversa articolazione formale”. Profezie?
Se nel ’70 Raffaele De Grada, presentando per le edizioni Svolta la cartella di incisioni “La vita di un paese nei suoi atti primari”, considerava: “…Quella sensibilità assai forzata della forma… corrisponde psicologicamente ad una sorta d’inferiorità regionale, un complesso di classe e di gruppo sociale che troviamo negli artisti meridionali. Con queste sue opere Sebaste vuole raccomandarsi come documentarista e ci riesce; questa storia lucana varrà anche tra dieci e venti anni, una storia vera narrata da un artista autentico”. Il compianto Marcello Ceccarelli, direttore del radiotelescopio di Medicina “Croce del Nord” e sensibile scrittore intimista meditava fra attrazione e disagio: “…Sono nel mio studiolo davanti a un quadretto che guardo ormai da anni. C’è una finestra con una cascata di gerani e un filo teso contro un muro bianco. Non credo che Sebaste mi piaccia. Quel filo o la foglia di smalto brillante o il volto distorto di una follia li guardo da uomo del Nord… e li guardo con la struggente nostalgia di luoghi dove non sono nato, dove non vorrei essere nato, dove non vorrei morire”.
Questi, dunque, gli alterni giudizi sul pittore di Novoli, che pur prestando la massima atten-zione a quanto veniva sviluppandosi nelle più varie direzioni, non aveva mai abbandonato la manualità dell’arte nemmeno di fronte agli imperativi più progressisti delle performances corporali, delle installazioni e di altri effimeri eventi. Così, quando vi fu un richiamo all’ordine, non ebbe bisogno di sollecitazioni per riprendere il suo cammino. Piuttosto, per-ché non adeguare la sua “narrative art” a linguaggi via via più attuali? E’ quello che fece.
Così, negli anni in cui smisi di seguirlo perché si era allontanato da Bologna (dove si era perfezionato nell’incisione presso l’atelier calcografico di Mario Leoni, tanto da mettere a frutto la maestria appresa costituendo a Bernalda un proprio laboratorio di grafica che stampò acqueforti perfino di Joseph Beuys e libri d’arte in edizione numerata presentati prima al “Moma” di New York e poi al “Guggenheim” di Venezia) Sebaste incominciò una verifica dei generi più importanti e più attraenti. Un nomadismo che si approssimò anche ai territori della transavanguardia, con figure più seduttive. Fino agli ultimi esiti di pittura poli-materica, gesto e colore in fusione psichica che determinano il significato di tavole dove i pigmenti e i collanti, il cartone ondulato e la cartapesta, sono elementi costitutivi di forme che non hanno mai abbandonato i territori della fisicità e che quindi sono riconducibili a un’esperienza sensoriale abbastanza fantastica. Che previsioni fare su questo artista così poliedrico e onnivoro? Di certo Salvatore Sebaste ha assunto una invidiabile autorità, an-che con lo studio diretto di capolavori di tutti i tempi, che nei musei assimila e metabolizza nel suo stile, mutevole ma riconoscibile.
Complice quell’aria del Sud, piena di echi e di evanescenze che però nei suoi quadri si consolidano in mitologie del nostro tempo; la dimensione intimistica e strapaesana si è aperta ad un respiro totalizzante e riflessivo sulle ansie del 2000.