Stampa

Antonio De Siena, dal diario di lavoro “Pensieri in movimento”, 1998.

Salvatore Sebaste nel proporsi ai suoi interlocutori, abituali od occasionali, indipendentemente dalla loro condizione sociale, od impegno professiona-le, ha sempre una leggera smorfia del viso accompagnata da un sorriso contenuto con cui marca un suo naturale atteggiamento d’attesa, di forte curiosità. Il volto quasi s’illumina e si coglie una disponibilità ad ascoltare, a ricevere. Si prova subito la sensazione di avere di fronte una persona viva-ce, attenta, tuttavia disarmante nella sua bonaria semplicità d’animo. Il tutto tradisce la presenza di interesse ‘culturale’, equilibrio interiore, maturità.
Leggendo il suo diario, a cominciare dalle prime riflessioni raccolte nell’agosto del 1972, si ha l’opportunità di seguirne gli umori, ma soprattutto di vivere con lui le fasi dinamiche del ripensamento, dell’arricchimento spe-cialmente dopo l’incontro con un grande maestro, dopo le esperienze didat-tiche, dopo l’osservazione di un gruppo di bambini con matita in mano alle prese con un foglio bianco o dopo aver colto la poesia di un episodio offerto dalla natura.
E’ decisamente stimolante e coinvolgente rifare con lui lo stesso per-corso di maturità, umana ed artistica. Non ci sono i tormenti, le rivolte, i pic-chi nervosi dell’invasamento, dell’esaltazione creativa, né le lunghe disser-tazioni filosofiche sui rapporti tra estetica ed etica, ma solo semplici pensieri in movimento, passione per il lavoro, amore per l’arte intesa da lui come possesso di un mezzo espressivo, autonomia, libertà, provocazione di sen-sazioni, strumento per dare visibilità alle proprie emozioni, per comunicare.
L’ambiente esterno, in tutte le sue manifestazioni e forme, lo ha sempre condizionato, aiutato a crescere. Alla base della formazione di Se-baste possono essere infatti individuati quali componenti primarie la natura-le vivacità di spirito e l’esperienza che gli proviene dalla realtà quotidiana vissuta in modo intenso. E’ attento osservatore della gestualità contadina, del mondo del lavoro: ogni gesto nella sua specificità individuale è per lui una forma espressiva compiuta.
L’infanzia ritorna spesso nei suoi ricordi, entra di prepotenza nei suoi pensieri e nelle sue opere come esigenza vitale di esprimersi con i segni. I legnetti carbonizzati rubati dal caminetto, le pareti bianche di calce delle case del Salento, sua terra d’origine, riconquistano un ruolo attivo nei qua-dri ‘materici’ insieme alle plastiche, tridimensionali immagini dei calanchi lu-cani. L’uomo sa conservare aspetti di una accattivante “ingenuità” e dare alle vicende storiche del passato le forme semplificate ed idealizzate del racconto novellistico, tipiche della fase infantile.
Apparentemente può apparire ‘scontato’, facile, prevedibile, ma è so-lo la prima impressione. Questa progressivamente si esaurisce ed è sosti-tuita dalla percezione di una ‘profondità’ radicata, matura, saggia, umana. Il tormento che traspare ovunque, in modo mai ossessivo, e che rappresenta il filo conduttore di tutta la sua esperienza artistica è la voglia di appropriarsi di un linguaggio espressivo comprensibile, riconosciuto: in sostanza il desi-derio di farsi capire, di trasmettere con i segni un’intuizione, un modo per-sonale di vedere la natura, la vita. Il diavoletto dei suoi primi sforzi grafici, che non trovava ‘forma’ accettabile e diventava per questo ‘personaggio fantasioso’, si ritrova sistematicamente nel movimento tormentato dei suoi quadri. La ricerca è alla base di ogni sua azione.
Combatte il partitismo invadente e gli artisti che vi si accostano per-dendo la loro naturale destinazione allo studio ed all’analisi dei fenomeni sociali e politici. Conferma una sua ingenua illusione utopistica nel momen-to in cui invoca un’arte ‘pura’, non contaminata dalla mercificazione del mercato, autonoma, liberata dalle strumentalizzazioni dei gruppi di potere.
Intorno agli ‘80 riafferma il suo atteggiamento polemico nei confronti dell’arte contemporanea che non sempre valuta come moderna. Ha ram-marico per il ruolo svolto da alcuni critici spesso appiattiti su posizioni pre-costituite e sollecita un maggiore impegno degli artisti. Le sue riflessioni, mai stanche o pervase di vittimismo, diventano sintetiche, impressionistiche nella manifesta capacità di sintesi concettuale. Si tratta di osservazioni ra-pide, efficaci, profonde, a volte riconoscibili come preziosi aforismi.
Nella descrizione degli incontri con altri artisti Sebaste raggiunge li-velli di sintonia e di penetrante umanità. Ai Maestri riconosce capacità tec-niche e, cosa ancor più importante per lui, doti umane e culturali straordina-rie. Appare quasi soggiogato da loro; li stima, li apprezza. Con Ortega, Brindisi, Marino di Teana, Treccani, Sinisgalli, Matta, Leone, Zancanaro, per citare solo alcuni casi, sembra quasi soddisfarsi la sua morbosa curiosi-tà culturale, placarsi il suo bisogno di conoscere, di confrontarsi. Gli stimoli che gli derivano da queste frequentazioni lo portano a tentare nuove espe-rienze, a cercare il dialogo con altri colleghi, nella convinzione, mai persa, che lo sviluppo civile e la crescita della società possono venire solo dal re-cupero di riferimenti culturali di ampio spessore, senza barriere tra i vari settori della scienza. Per questo rifiuta il tecnicismo paranoico, la ‘moderni-tà’ industriale come processo meccanico, distruttivo per l’uomo che pure lo sostiene. Il suo desiderio è un rapporto stretto tra arte, scienza e ricerca, una simbiosi necessaria e per molti aspetti salvifica.
Le divagazioni, i pensieri e le affermazioni anche decise della fase finale offrono nell’insieme il quadro di un Sebaste che sa anche fermare la sua attenzione su aspetti secondari, minori della vita. Una sottile autoironia lo porta a non prendersi troppo sul serio e questo certamente è positivo, perché è una qualità che non si trova molto facilmente.